Giovedì 25 novembre è la giornata Internazionale per l’eliminazione della violenza maschile contro le donne.
Quest’anno la riflessione del Coordinamento Donne Fisac Piemonte è dedicato al tema della violenza economica.
Buona Lettura!
Lucia non ha avuto la possibilità di studiare, ha sempre lavorato, anche dopo il matrimonio, il marito faceva l’operaio ed un solo stipendio non era sufficiente per mantenere la famiglia.
Quasi tutta la sua vita lavorativa è stata contrassegnata da lavori precari, spesso in nero. Consegnava ciò che guadagnava al marito che ogni settimana le dava quanto per lui era sufficiente per le spese familiari.
Non ha mai avuto un conto presso una banca o alla posta, a queste cose ci pensava lui che, poco dopo essere andato in pensione morì improvvisamente.
Lucia si trovò da un giorno all’altro a doversi occupare delle questioni economiche, spesso si vergognava perché non capiva proprio cosa le dicevano gli impiegati della banca dove il marito aveva il conto, ma velocemente è riuscita a cavarsela, ha scoperto di essere più brava del marito a gestire le sue entrate!
Giovanna ha 45 anni, si è sposata quando ne aveva 25, subito dopo essersi laureata. Durante il periodo di studi, per mantenersi, aveva iniziato a lavorare ed una volta laureata voleva insegnare, ma con il matrimonio, le cose per lei cambiarono: le insistenze del marito affinché lasciasse il lavoro per dedicarsi completamente alla casa, alla famiglia, ai figli che intendevano avere la convinsero. Dopo pochissimo tempo dalle nozze abbandonò i suoi progetti per dedicarsi alla casa e ai figli che nacquero nel giro di pochi anni.
Giovanna perse i genitori quando era ancora una ragazzina, erano benestanti e le lasciarono un piccolo patrimonio da gestire.
“Sono cose da uomini queste, ci penso io, tu non devi preoccuparti di nulla” erano le parole del marito, così anche la gestione economica di quanto ereditato da lei passò nelle sue mani.
Giovanna non controllava più niente, non aveva contezza di quanto entrava e quanto usciva nel bilancio familiare, doveva chiedere i soldi al marito per ogni cosa, che pretendeva da lei un resoconto dettagliato di ogni singolo centesimo speso.
Ad un certo punto il marito decise di intraprendere un’attività lavorativa autonoma, ma fece intestare tutto a nome di Giovanna “per ragioni fiscali”, diceva lui; Giovanna si fidava del suo uomo e quindi firmò assegni, richieste di finanziamenti, ipoteche, così nel giro di poco tempo Giovanna non ebbe più alcun bene, si ritrovò oberata di debiti ed inseguita dai creditori, con il marito che la incolpava del disastro economico della famiglia.
All’età di 35 anni il mondo di Giovanna si sgretolò, capì di aver bisogno di aiuto, lo trovò presso un’associazione di aiuto per le donne vittime di violenza, si separò dal marito e riuscì a trovare un lavoro.
Cosa hanno in comune Lucia e Giovanna? Sono entrambe vittime di una violenza da parte dei loro compagni: l’uomo aggressivo non è solo quello che alza le mani!
Ci sono forme di violenza che feriscono quanto quella fisica: offese, svilimento, la messa in discussione delle capacità della compagna, impedirle di lavorare o di frequentare altre persone al di fuori della famiglia, sono tutti atteggiamenti che possono essere definiti come atti di violenza economica.
La violenza economica è la forma di violenza meno riconosciuta dalle donne che la subiscono e difficilmente ne hanno consapevolezza. Come le protagoniste delle due testimonianze che vi abbiamo proposto, a causa di uno stereotipo culturale, arcaico e patriarcale, la gestione delle finanze e dei fondi familiari è una prerogativa riservata al cosiddetto “capofamiglia”, ruolo generalmente riservato ad un membro di sesso maschile.
Si tratta di un fenomeno poco conosciuto e difficile da quantificare, sottostimato, che coinvolge numerose donne e consiste in ogni atto che abbia lo scopo di privare la vittima, in tutto o in parte, della propria indipendenza economica e della partecipazione al godimento e alla gestione dei redditi.
La violenza economica, quindi, si realizza impedendo alla donna l’accesso al denaro o alle risorse necessarie per condurre una vita dignitosa, privandola della propria libertà.
L’instaurazione di questa dinamica parte molto spesso da comportamenti che non destano sospetti e sono attuati solitamente all’interno delle mura domestiche dal marito nei confronti della moglie, ma anche dal padre nei confronti della figlia, del fratello nei confronti della sorella, dai figli maschi nei confronti delle madri.
Non esistono statistiche ufficiali sulla violenza economica in Italia, ma il CNEL (=Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro) durante il Festival dello Sviluppo Sostenibile avvenuto nel 2019 ha presentato dati secondo i quali in Italia 3 donne su 10 non hanno un conto corrente e non possono gestire da sole i propri guadagni.
Al sud la situazione è ancora peggiore: a non essere autonome nelle spese è il 46% delle donne, inoltre se quasi l’80% delle laureate ha un proprio conto corrente, nessuna lo possiede tra chi si è fermata alla licenza media.
D.i.Re (Donne in Rete contro la violenza), associazione che raccoglie oltre 80 centri antiviolenza in tutta Italia, fornisce al riguardo altri importanti dati: il 79% delle donne che vengono accolte nelle strutture denuncia episodi di violenza psicologica, il 61% di violenza fisica e il 34% di violenza economica. Quest’ultima percentuale, bassa rispetto alle altre, non indica una minore diffusione del fenomeno, ma piuttosto una minore consapevolezza al riguardo.
Come tutte le altre forme di violenza contro le donne, anche la violenza economica ha carattere di trasversalità, è cioè indipendente dalle fasce di reddito e dalla classe sociale di appartenenza. Ne sono vittime, allo stesso modo, casalinghe e professioniste e riguarda una fascia d’età compresa principalmente tra i 40 e i 60 anni.
Riconoscere e combattere questo tipo di violenza è molto importante, alla luce del fatto che troppo spesso chi è vittima di violenza economica spesso è o sarà vittima anche di violenza psicologica, affettiva e fisica.
Anche la violenza economica è spesso caratterizzata da un’escalation di comportamenti violenti.
Il primo livello riguarda il controllo e l’esclusione della donna nella gestione delle risorse finanziarie: un marito/compagno che dice alla propria moglie/compagna “tu non hai bisogno di lavorare: ” ci penso io a te” sta salendo il primo gradino della scala che conduce alla dipendenza economica della propria partner.
Una donna allontanata dal modo del lavoro che non ha quindi la possibilità di guadagnare ed avere un proprio sostentamento è dipendente, totalmente o in parte, dalle finanze del proprio marito/compagno e non ha la possibilità di autorealizzarsi rinunciando allo sviluppo di competenze professionali ed alla realizzazione di un progetto in ambito extra familiare.
Un ulteriore passo nell’escalation di violenza consiste nella volontà dell’uomo di decidere come amministrare il menage familiare attraverso l’utilizzo di un conto unico cointestato a cui, però, ha accesso solo il maltrattante, mentre alla donna è precluso non solo di potervi attingere, ma anche di verificarne il saldo, i movimenti, ovviamente la sua opinione rispetto agli eventuali investimenti dei risparmi non viene contemplata.
Il terzo livello riconoscibile è quello durante in quale l’uomo fornisce alla donna un budget settimanale spesso solo per l’acquisto di alimenti o generi utili alla pulizia della casa occupandosi lui di pagare le utenze, le visite mediche, e chiedendo alla donna resoconti dettagliati per ogni singola spesa effettuata.
Il risultato è il totale isolamento della donna rispetto alla gestione delle entrate finanziarie.
In questa fase, con l’aumento del controllo da parte del carnefice, la donna acquisisce però consapevolezza della propria condizione di costrizione, realizza il disagio,
l’anormalità della sua situazione; molto spesso prova vergogna, ha paura del giudizio degli altri, si isola perdendo autostima.
E’ in questa fase che nasce la circolarità tipica di tutte le violenze degli uomini contro le donne, la dipendenza tra vittima e carnefice: c’è un conflitto, la violenza sale, il carnefice chiede scusa e diventa generoso dando vita ad un periodo di relativa quiete per poi ricominciare tutto dall’inizio.
L’escalation tocca il picco quando gli abusi del maltrattante si traducono in atti illeciti: a questo punto il maltrattante dilapida il capitale familiare senza metterne al corrente il coniuge o, sotto minaccia, costringe la donna a fargli da prestanome, fino ad arrivare a svuotare i conti correnti in previsione di una separazione.
La separazione o la denuncia delle violenze subite non sempre ferma questa tipologia di maltrattamento: in questi casi può accadere che l’ex partner prosciughi i conti correnti comuni o trovi modi per non pagare l’assegno di mantenimento (anche per i figli).
Proprio per questo, nel Decreto Rilancio del dicembre 2020 è stato istituito il Reddito di Libertà, erogato alle donne vittime di violenza.
Questo è ciò che purtroppo molto spesso capita all’interno delle mura domestiche, ma varrebbe però la pena andare più a fondo, per capire dove la violenza economica affonda le sue radici.
Se il fattore culturale, quello di una società ancora fortemente patriarcale, è il nodo centrale da cui nasce la violenza contro le donne, è il nodo stesso che produce una serie di distorsioni sul fronte economico, familiare e del lavoro che, a loro volta, influiscono direttamente sulla fragilità economica delle donne che si trovano così più facilmente a essere vittime di questo tipo di abuso.
Le lavoratrici in Italia continuano ad essere considerate “lavoratrici di passaggio” nel mercato del lavoro, in quanto il loro posto naturale (troppi ancora lo pensano) è a casa con i figli.
Se le donne vogliono essere economicamente indipendenti, c’è sempre qualcosa che non le fa sentire adeguate: prima le donne non erano abbastanza scolarizzate, ora che si è raggiunta la parità nella formazione scolastica (anzi le giovani donne italiane sono oramai più istruite degli uomini), viene detto che il problema è la scelta dell’indirizzo di studi perché le ragazze scelgono percorsi di studio meno remunerati nel mondo del lavoro, senza pensare che l’autoselezione nelle scelte di studio sono dovute al permanere di forti stereotipi di genere nella struttura dell’istruzione e della famiglia.
A parità di formazione, le donne italiane hanno meno possibilità di trovare un posto di lavoro: “hai intenzione di spostarti?” “pensi di fare figli?” sono le domande che troppo spesso vengono rivolte alle donne durante i colloqui , perché è scontato che nel nostro Paese la cura della famiglia sia a carico delle donne.
In caso di formazione e di mansioni lavorative equipollenti, è prassi normale che le opportunità di avanzamento di carriera siano proposte agli uomini: loro sì che si dedicano al lavoro, possono fare gli straordinari ed essere a disposizione, non sono distratti da figli da accudire o da genitori anziani da assistere: è evidente che le culture aziendali siano caratterizzate da modelli, stili e tempi di lavoro tipicamente maschili.
La conciliazione dei tempi di vita e di lavoro è diventata un’ulteriore catena che lega le donne: la rivoluzione all’interno della famiglia, nella ripartizione dei tempi e dei compiti familiari tra uomini e donne, è molto lontana dal compiersi; l’unica vera conciliazione che si riesce ad avere è con altri componenti della famiglia: sono spesso i nonni, e nella maggior parte dei casi le nonne (che magari ancora lavorano a causa dell’innalzamento dell’età del pensionamento) a condividere gli impegni lavorativi e familiari.
Cosa dire poi di quello che è successo con la pandemia? Scuole chiuse per lunghissimi periodi, il lavoro da casa (non tutte hanno la possibilità di utilizzare a causa dell’attività svolta o perché non hanno un computer personale) non è per nulla “ smart” e non è uno strumento di conciliazione tra gli impegni lavorativi e familiari.
I costi della pandemia li stanno pagando in maniera più pesante le donne: durante lo scorso anno delle 444.000 persone che hanno perso il lavoro, il 70% erano donne. Secondo i dati Istat da ottobre a dicembre del 2020, periodo coincidente con la seconda ondata di contagi e conseguentemente con nuove chiusure, il dato si è inasprito ulteriormente e su 110.000 nuovi disoccupati o inattivi, il 98% è donna. Considerando che da quando è iniziata la pandemia vige il blocco dei licenziamenti, è evidente come il lavoro delle donne sia caratterizzato da una fortissima componente di precarizzazione e, essendo meno retribuito, più facilmente sacrificabile in caso di difficoltà di gestione dei carichi familiari.
Le tradizionali politiche e strategie per accrescere la partecipazione femminile al mondo del lavoro, hanno fallito e vanno ripensate: incentivazioni e decontribuzioni a pioggia (assolutamente insufficienti) hanno prodotto risultati ben al di sotto delle risorse spese, in particolare per l’occupazione femminile che è stata ulteriormente marginalizzata. Oltretutto in Italia non viene attuata la pratica di valutazione dell’impatto delle misure prese, necessaria per comprendere l’efficacia delle misure stesse e dell’impiego dei soldi pubblici e per capire se i soldi pubblici sono stati spesi efficientemente.
Le donne incontrano molte difficoltà anche quando intendono avviare un’attività lavorativa autonoma: già prima di questa gravissima crisi, oltre la metà delle imprenditrici dichiarava di incontrare maggiori ostacoli rispetto agli uomini nell’ottenere prestiti e, una volta ottenuto un finanziamento, di pagare un tasso di interesse più alto degli imprenditori maschi.
Queste differenze emergono non tanto perché le imprese femminili abbiano performance peggiori, ma piuttosto per la mancanza di fiducia nell’imprenditoria femminile. Inoltre, il comportamento degli istituti di credito o delle società finanziarie è diverso quando una donna ha come garante un uomo, rispetto a quando è una donna a garantire un’altra donna: in questo ultimo caso i tassi di interesse sono più alti.
Nel nostro settore abbiamo toccato con mano l’impatto che questa crisi ha avuto sulla fascia più debole che, soprattutto durante le prime fasi della pandemia, si è rivolta in massa ai servizi dei monte pegni gestiti dagli istituti di credito. I monte pegni hanno infatti registrato un aumento delle richieste di circa il 40% nello stesso periodo di riferimento.
Le utilizzatrici di questo servizio sono in prevalenza donne di mezza età, casalinghe, disoccupate o lavoratrici con professioni poco qualificate, con un livello scolastico medio, moltissime le donne straniere.
Ecco le parole di una delle frequentatrici del Monte Pegni:
“Ho 35 anni ed ho due bambine che spesso mi accompagnano quando mi reco a portare in pegno i miei beni.
Io sono entrata per la prima volta al monte per mano a mia nonna e smettere per me ora è impossibile. Normalmente lo stipendio finisce a metà mese e quando finisce impegno ciò che mi serve per arrivare al 27, poi quando percepisco il nuovo stipendio vado a riprendere quanto ho impegnato 10 giorni prima. E intorno al 20 la cosa ricomincia. Non vorrei che anche le mie figlie percorressero questa strada, per loro sogno un futuro in cui non debbano accontentarsi di lavori precari e sotto pagati”.
Al monte dei pegni non sono mancate le professioniste, nonostante la loro frequentazione sia stata a breve termine, si sono rivolte all’istituto per sostenere un periodo di difficoltà finanziaria.
Nell’ultimo decennio di crisi economica, la proliferazione eccessiva dei cosiddetti “Compro Oro” che sfuggono ai controlli e applicano tassi molto vicini all’usura, non fanno che aggravare la situazione economica di chi è già a forte rischio di povertà.
Rimanendo invece all’interno delle dipendenti del nostro settore, la fascia più debole è rappresentata dalle lavoratrici delle agenzie assicurative in gestione libera, che hanno sopportato le ricadute peggiori: molte di loro sono state messe in cassa integrazione a rotazione (a differenza dei dipendenti bancari e assicurativi), nonostante la loro attività (come quella degli istituti di credito) sia stata considerata tra i servizi essenziali.
Non tutti gli agenti datori di lavoro si sono adeguati al rispetto delle normative adottando tutte quelle misure atte a ridurre o a evitare il contagio (installazione di plexiglass, dotazione di dispositivi di sicurezza personale come mascherina e visiera protettiva). Non sono stati rari i casi in cui le dipendenti, pur di salvaguardare la salute propria e quella dei clienti, si sono attrezzate a proprie spese.
Nonostante questo scenario, le impiegate del settore, erano e restano le più soggette a licenziamenti e di conseguenza alla perdita della loro autonomia economica.
La fotografia del nostro Paese è davvero scoraggiante ed è il risultato di politiche pensate da maschi per un Paese al maschile.
Perché non iniziamo a praticare una vera e propria DEMOCRAZIA PARITARIA?
Vogliamo un paese in cui non vi siano più impedimenti alla crescita economica delle donne, dove le possibilità di carriera siano effettivamente paritarie, dove il lavoro di cura sia finalmente condiviso, dove non vi sia più una differenza di reddito!
Ma vogliamo anche di più: vogliamo che la presenza delle donne in ambito politico e sindacale, sia maggiore e giustamente valorizzata.
Non si tratta di riservare spazi “immeritati” alle donne, ma di aprirsi ad una competizione meno distorta. L’aspirazione delle donne di arrivare solo con le proprie forze a posizioni apicali è condivisibile, ma bisognerebbe chiedersi se uomini e donne gareggino sullo stesso terreno: correre i 100 metri su un terreno fangoso e pieno di buche è ben diverso che correre sulla pista di uno stadio.
Quando una donna arriva ai vertici la domanda “abbiamo preso la donna migliore?” cela in realtà questo tipo di preoccupazione: non è che per quella donna sia stato lasciato fuori un uomo con maggiori capacità e potenziale solo perché doveva essere presa una donna?
Lasciando da parte che l’obiettivo sarebbe sempre quello di scegliere le persone giuste per il posto giusto, perché questo tipo di obiezione viene subito avanzata quando si parla del genere meno rappresentato?
Nessuno si sogna di chiedere se per tutti gli uomini che coprono posizioni di vertice ci sia una donna con potenziale e capacità superiori che non sia stata scelta solo perché donna.
Insomma, è sempre e solo il merito che porta gli uomini ai ruoli di comando?
COORDINAMENTO DONNE FISAC CGIL PIEMONTE