foto1Nel clima tardo autunnale di sabato 25 maggio, sotto le gelide volte della Triennale di Milano, si è svolta l’ interessante conferenza del giovane sociologo americano Nathan Jurgenson -teorico dei social media- dal titolo “Innovazione -The networked society – Effetti della rivoluzione digitale”. Una volta sul palco, alle spalle di Jurgenson è stata proiettata un’immagine: il primo piano di Emile Zola e la sua celebre frase sull’interazione tra la realtà e la sua percezione: “non puoi dire di aver visto qualcosa finché non l’hai fotografata”.  Il sociologo ricorda come l’invenzione della fotografia rappresentò qualcosa di realmente magico per l’epoca: una tecnologia capace di trasportare le persone fuori dallo spazio e dal tempo, in una sorta di eterno presente.  Connaturata alla fotografia è sempre stata viva la necessità di documentare; l’evoluzione tecnologica ha permesso a tutti di avere una macchina fotografica e di poterla usare per osservare il mondo, interpretarlo ed archiviarlo. La stessa ansia comunicativa e documentale investe i fruitori dei moderni social network facendo vivere il presente come futuro passato e la timeline (diario) di Facebook assume l’aspetto di una sequenza di cose morte.  I cosiddetti social media allargano ancor più la modalità di percepire la quotidianità come oggetto da archiviare per il futuro, come una sorta di museo della realtà, ponendo in questo modo il presente fuori dalla società.
foto2Susan Sontag nel 1973 asseriva di vivere in un’epoca nostalgica e che i fotografi fossero i principali promotori di questo sentimento.  Un famoso social network fotografico come Instagram ha costruito il suo enorme successo commerciale proprio sull’apparenza nostalgica dell’immagine. Attraverso una serie di filtri ed effetti, l’utente fa apparire la foto come fosse stata scattata con una vecchia pellicola, o semplicemente avesse subito il deterioramento del tempo o della cattiva conservazione. In questo modo non solo si relega il presente nel passato attraverso l’atto di fotografare, ma lo si rende addirittura passato remoto: il nostro presente diventa il passato della propria adolescenza, dei propri genitori, quello già documentato dalle precedenti generazioni che, evidentemente, ci appare oggi più concreto, più reale, più autentico, nonostante si sia consapevoli dell’artificio operato da Instagram. Il nostro tempo appare sfuggirci in quanto tale, assumendo contorni indefiniti, senza sostanza né identità.

Chi utilizza abitualmente la macchina fotografica inizia a vedere il mondo attraverso uno sguardo nel quale la realtà diventa una messa in scena per lo scatto: le geometrie della composizione, le necessità cromatiche, gli effetti della luce, le prospettive generate dalla profondità di campo. La realtà assume le caratteristiche di un set compositivo per l’immagine. E’ quello che comunemente si definisce occhio fotografico: un modo di percepire la realtà. Un fotografo vede il mondo diversamente da uno scrittore, in quanto usa una diversa tecnologia. Per Jurgenson, coloro che utilizzano intensamente Facebook o Twitter, acquisiscono una simile attitudine nei confronti della quotidianità, che tende a divenire una serie di eventi, di frame da condividere secondo la logica del social network stesso. L’occhio Facebook è l’equivalente tecnologico contemporaneo dell’occhio fotografico e risulta capace, allo stesso modo, di condizionare la nostra percezione della realtà, cambiando il modo in cui interagiamo con le altre persone ed interpretiamo il mondo. Se una caratteristica connaturata ai social network è quella di allontanare le persone dal presente, si impone dunque la necessità di vivere l’oggi come generatore di futuro e non come potenziale passato per il futuro. Facendo riferimento a questa esigenza, Jurgenson cita Snapchat, uno strumento nel quale le immagini hanno una permanenza massima di 10 secondi, trascorsi i quali l’immagine stessa si distrugge. Per il sociologo americano questa applicazione rappresenta un esempio atipico di social network (oltre che di mezzo fotografico), che non opera per documentare il presente, ma stimola l’utente a vivere il presente come presente, ridandogli importanza e limitando la ridondanza delle informazioni.

Jurgenson sottolinea, infatti, come il moltiplicarsi della documentazione della realtà presente sui social network, sia sotto forma di immagini che di descrizioni del presente, renda ognuna di queste testimonianze poco rilevante, operando così un ulteriore e generalizzato processo di svalutazione degli avvenimenti.  Ciò contribuisce a rendere sempre più evanescenti le collocazioni identitarie, ad acuire la difficoltà di interpretare la cronaca ed il ruolo sociale delle persone. È’ anche impossibile immaginare un social senza un Ego, senza una necessità di “performare”, di esaltare l’individualità tramite il sociale; pensiamo al riguardo alla vera e propria creazione di una personale identità su Facebook, normalmente una “personalità aumentata”, una sorta di curriculum vitae da mostrare nell’arena sociale per le urgenze competitive indotte dal modello liberista e come questa creazione interagisca con la “vera identità” e la trasformi.  Viene stimolata l’ossessione di chiedersi come il presente sarà ricordato nel futuro, con la necessità di presentarsi al mondo sopravvalutando le proprie qualità, di quantificare se stessi anche contando i followers (le amicizie), di auspicare che gli altri valutino positivamente le nostre esperienze (attraverso i “like”), amplificando in tal modo un diffuso sentimento di solitudine ed insicurezza, di fragilità, di incapacità a definire una qualunque identità sociale.

A questo si aggiunga l’impossibilità di essere realmente disconnessi: anche qualora ci imponessimo di restare un giorno o una settimana senza alcun meccanismo di condivisione tecnologica, non solo continueremmo a osservare il mondo con l’ occhio facebook, ma appena riconnessi, condivideremmo probabilmente proprio l’esperienza della lontananza appena vissuta. Particolarmente interessante, a mio avviso, il costante riferimento alla fotografia come tecnologia e strumento comunicativo: troppo spesso ci si riferisce alle cosiddette “nuove tecnologie” come ad un qualcosa di avulso dalla realtà, una sorta di spazio alternativo al reale. Eppure, come ha detto Jurgenson, quando si apre un libro non si dice: “sto entrando nel Text World”, anche se il libro è esso stesso frutto della tecnologia, così come il linguaggio, l’architettura, i trasporti, ecc. La società è tecnologia, così come la tecnologia non può prescindere dall’evoluzione sociale, in un costante intreccio dialettico tra le relazioni sociali ed i mezzi tecnologici, dove a noi è consegnato non solo il compito di comprendere tali rapporti, ma anche quello di agire attraverso gli strumenti a nostra disposizione.

Anche in tale prospettiva ho ritenuto opportuno inserire i presenti appunti nel quadro della formazione per i quadri della FISAC PIEMONTE, in particolare nel percorso che vede la comunicazione quale strumento necessario per chi riveste funzioni di rappresentanza ed opera all’interno dei complicati rapporti sociali per operare un cambiamento. La nostra comunicazione è basata sui gesti, i segni, le parole, le lettere, i toni, gli sguardi, i colori. La tecnologia non solo è parte della comunicazione, ma è essa stessa comunicazione. Al cinema, nelle piazze o sulle connessioni internet, i contenuti non solo si trasmettono tramite i mezzi di cui disponiamo, ma da questi sono condizionati e, per certi versi, determinati.

Il Responsabile della Formazione
Massimo Scocca

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